
Dopo l’anno sabbatico Fabrizio Cotza torna anche sulle nostre pagine. Lo abbiamo intervistato sul nuovo libro che esce proprio in questi giorni dal contenuto più che mai di attualità, perché ci vuole aiutare a prendere decisioni su cosa fare “da ancora” più grande…
Fabrizio Cotza si è preso un intero anno di pausa per dedicarsi esclusivamente a quello che definisce il suo libro più importante, dopo i precedenti “Per fortuna c’è la crisi!”, “SalvaVita” e “Imprenditori Sovversivi”. Un’opera impegnativa, dedicata all’approccio che dovremmo avere nei confronti del lavoro (e non solo), a prescindere dal ruolo che svolgiamo. Il sottotitolo parla chiaro: “Come cambiare lavoro o trasformarlo in meglio”. Dopotutto, chi non ci ha pensato almeno una volta nella vita? Mollare tutto e aprire un piccolo bar in qualche spiaggia tropicale! Ma per Cotza non è questa la soluzione, o perlomeno non l’unica. Lo abbiamo intervistato per farci raccontare perché ha scritto questo libro e a chi potrebbe essere utile.
Il titolo del tuo nuovo libro “Cosa non farò da grande” è già molto chiaro ed evocativo, ma ci puoi riassumere perché dovremmo leggerlo?
«Da anni faccio ricerche legate al rapporto che le persone hanno con il proprio lavoro per comprendere cosa succede quando quella passione iniziale inizia a calare, e soprattutto come la persona reagisce nel momento in cui si rende conto di non amarlo più. Quello che ho scoperto è che raramente è il lavoro in sé il problema, bensì il dovere accettare tutta una serie di compromessi emotivi con clienti, fornitori, collaboratori, burocrazia statale e colleghi. Questi compromessi vanno a impattare sui nostri valori più profondi fino a creare un rigetto generale per quello che facciamo, con tutte le conseguenze legate a questo».
Ovvero?
«Le conseguenze più immediate ed evidenti sono di tipo emotivo, quindi un senso di frustrazione e rabbia che può trasformarsi poi in ansia e stress cronici, fino ad arrivare all’apatia e alla depressione nei casi più gravi. Ma non vanno trascurate le conseguenze psicosomatiche quali mal di schiena, gastriti, mal di testa e tutti i problemi che ben conoscono coloro che si ritrovano da anni in questa situazione».
E perché le persone non reagiscono e accettano di stare male?
«Semplicemente perché non vedono alternativa. Lentamente ci si abitua a tutto, anche alla sofferenza emotiva e al dolore, nella speranza che qualcosa magicamente cambi, senza però agire veramente per cambiare le cose».
Vendendo tutto?
«Beh, quella è la soluzione più estrema, ma in realtà non è l’unica. Quello che si può fare, ed è di questo che parlo nel libro, è capire le vere cause del malessere lavorativo e iniziare a cambiare alcune modalità di approccio. A volte questo comporta delle scelte importanti da fare, per esempio nei confronti di clienti o collaboratori, altre volte è sufficiente cambiare il modo in cui si affrontano le cose. L’importante è essere consapevoli di quello che lentamente ci sta spegnendo l’entusiasmo ogni giorno e capire cosa si può fare per invertire la rotta e ritrovare il piacere di fare il proprio lavoro».
Il tuo è un libro teorico e ci sono consigli pratici su cosa fare?
«Questo è stato l’aspetto più complesso che ho dovuto affrontare mentre scrivevo. Conciliare due mondi che sembrano lontani tra loro, ovvero l’aspetto più psicologico ed emotivo con quello più concreto, che da sempre mi caratterizza nel lavoro che faccio. Perché nella realtà è quello che succede. Se la tua attività è disorganizzata nei hai un impatto sia nell’umore che nell’efficienza. Se nel tuo ambiente non sopporti qualcuno questo avrà ripercussioni sia emotive che pratiche. Quindi ho affrontato entrambi i temi dando vere e proprie attività da fare ma affrontando anche temi più profondi quali lo scopo di vita e la ricerca della propria realizzazione personale».
Cosa ti ha spinto a scrivere questo nuovo libro sacrificando in parte l’anno sabbatico che ti eri preso?
«Appena ho comunicato ad amici e clienti che mi sarei preso un anno di pausa la risposta che mi sono sentito dire più frequentemente è stata “Beato te”. E parlando con queste persone mi sono reso conto dell’altissimo livello di insoddisfazione in ambito lavorativo da parte di imprenditori, liberi professionisti, dipendenti. Ciascuno con le proprie motivazioni e frustrazioni. Ho iniziato quindi a fare brevi sessioni gratuite di consulenza per capire l’origine di questo male così diffuso, e quasi tutti lo facevano risalire al periodo post Covid, quando per la prima volta si erano potuti concedere il lusso di rallentare o di riflettere sulla loro qualità di vita. Per molti è stato un momento rivelatorio, difficile e sorprendente allo stesso tempo. E non tutti sono riusciti a riprendere poi la vita di prima, come se niente fosse. Nell’aiutarli a comprendere quello che stavano vivendo ho iniziato ad accumulare sempre più materiale che poi ho utilizzato per il libro, comprese alcune storie di trasformazioni importanti».
L’hai definito un libro “pericoloso”. Come mai?
«La consapevolezza racchiude sempre un certo fattore di rischio, perché è come svegliarsi improvvisamente per vedere realmente come abbiamo vissuto fino ad oggi la nostra vita. Prenderci responsabilità della nostra felicità non è semplice, perché l’essere umano tende a procrastinare e ad abituarsi alla routine di tutti i giorni. Un libro come questo, come dice il titolo stesso, ti fa capire chiaramente cosa non vorrai più fare in futuro, a quali compromessi non vorrai più scendere e che tipo di vita meriti di vivere. Aiuta ad uscire dai condizionamenti, dalle gabbie emotive e da un sistema che ci vuole schiavi con l’illusione però di essere liberi. Questo è un libro pericoloso per chi teme il risveglio, ma illuminante per chi ha deciso di prendere in mano la propria vita, iniziando proprio dall’aspetto più impattante: il lavoro che svolge ogni giorno».
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a cura di Simone La Rocca - Foto Photo-R
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